Accompagnare lo sviluppo di una persona significa saper fare i conti con le sue vulnerabilità -e prima di tutto con quelle di chi lo accompagna.
Lo sanno bene quegli operatori che lavorano con quelle persone che la società pone ai margini a causa dei traumi nel loro vissuto, delle difficoltà economiche, delle barriere culturali. Per queste persone è fondamentale sviluppare una certa qual capacità di resilienza, attingendo alle proprie risorse.
La figura del tutor di resilienza è fondamentale per ricostruire autostima e fiducia, per dare una struttura laddove eventi traumatici l’hanno dissolta, per rilanciare attraverso ascolto, empatia e affetto la traiettoria di un essere umano.
Riflettendo su questa figura, che è comune nei percorsi di sostegno di vittime di violenza, nel supporto a minori traumatizzati, così come nei percorsi di inserimento sociale di molte categorie di persone, ci interroghiamo sul ruolo delle Arti Marziali e sulla figura dell’insegnante.
Gli allenamenti sono composti, solitamente, di una parte di riscaldamento e preparazione fisica a cui segue un lavoro secondo il linguaggio tecnico proprio della disciplina praticata.
Il praticante è condotto costantemente in una zona di crescita. La progressiva intensificazione del lavoro fisico e tecnico può essere vista come una condizione di “dosaggio controllato di difficoltà“.
La pratica di una disciplina marziale non deve essere per forza traumatica, sebbene non vi sia praticante che, nel tempo, non abbia rimediato almeno qualche graffio, qualche livido e qualche contusione.
Certamente è impattante. E’ impattante imparare a cadere, è impattante imparare a muoversi, è impattante lavorare in coppia.
A meno di essere dei cyborg totalmente insensibili, questi impatti urtano e smuovono anche la dimensione personale del praticante. E così abbiamo persone che alternano periodi di entusiasmo sfrenato a momenti di frustrazione in cui la tentazione di mollare tutto è elevatissima.
Ci siamo passati tutti. Ci passiamo tutti, in forme diverse, ciclicamente.
L’insegnante diventa così un tutor di resilienza se riesce a dosare quel tanto di “impatto” che serve per consentire al praticante di individuare dentro di sé le risorse per migliorare, per scolpire meglio il proprio carattere, per giungere all’esecuzione di un gesto che rappresenti la sua crescita tecnica e personale.
Questo è il motivo per cui un ambiente di pratica sano perché empatico ed empatico perché dotato di regole di ingaggio trasparenti, diventa il miglior laboratorio per rielaborare il proprio vissuto.
Tendere ad un impegno costante e a una frequenza attenta guida il praticante a prendere contatto con i propri meccanismi fisici e psicofisici. In altri termini: con i propri talenti e i propri limiti.
E se da un lato il programma tecnico è pensato per portare pressoché chiunque dall’essere un principiante assoluto fino all’ultimo dan conquistabile con un esame, dall’altro le discipline marziali, specie quelle tradizionali, non sono pensate per il solo sviluppo di competenze tecniche.
Emerge così l’importanza di poter fare affidamento su un tecnico, su un insegnante che sappia supportare e facilitare questo percorso.
Rifuggendo da quei sottili meccanismi che fanno degradare il rapporto insegnante-allievo in un rapporto di reciproca dipendenza o in una relazione d’aiuto salvatore-salvato; piuttosto nutrendo quel clima di fiducia che individua il potenziale inespresso e indica gli strumenti per farlo fiorire.
Tra i professionisti della psicologia e del mondo dell’educazione, i tutori della resilienza sono molto attivi specialmente tra i minori: è nell’età evolutiva del resto che si può supportare con maggior incisione lo sviluppo delle competenze di un individuo.
Ed è a quel bambino interiore, sempre presente in ogni fase della nostra vita che le discipline marziali costantemente parlano. Shoshin (初心) non è solo lo spirito del principiante ma è quell’animo sempre giovane che impara a misurarsi col mondo e che nel mondo trova il suo posto grazie alle qualità sviluppate giorno per giorno.
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